Parrocchia di Poirino




TEMA: Catechesi esequie n.1 - in data: 26/03/2020

Atroce è morire senza vicinanza, atroce il lutto senza contatto.
Per sopportare il dolore, abbiamo bisogno di stringere una mano. L’angoscia ci sopporta quando ci sentiamo accarezzati dalla voce di chi ci ama. Il contatto fisico può essere più efficace di uno psicofarmaco, la vicinanza del suono della voce è ancor più importante del contenuto delle parole. Nella disperazione della morte di un nostro caro, cerchiamo una spalla su cui piangere.
Nell’attuale emergenza sanitaria, nulla. Nulla di tutto questo.
Esiste un’unica indicazione per salvarci dal contagio: stare distanti, limitare le parole, coprirle con la mascherina. Ci viene ribadito a ogni ora di essere cauti e avveduti, di evitare ogni incontro.
In questi giorni le morti aumentano, insieme al dolore e allo smarrimento popolare.
I riti delle esequie si celebrano in cimitero per chi vi viene sepolto (o in cortile se la destinazione è la cremazione). Dopo lo shock iniziale per un rito così sbrigativo e deprivato, stiamo cercando di rendere virtuosa questa necessità e di trovare forza e senso in questa sventura comune.
I vincoli imposti sono ferrei: pochissime persone, distanti tra loro e protette, nessuna ritualità distesa. Si deve fare in fretta.
Un rito funebre celebrato così, può liturgicamente sopravvivere? Come esercitare la misericordia del seppellire i morti? E’ ancora possibile donare umanità alla morte?
Una legge della natura sembra orientarci a una risposta affermativa. Ce la insegnano i vegetali. Un evento atmosferico violento può abbattersi su una pianta e spezzarne i rami, una negligenza può danneggiare la vegetazione dell’orto. La natura però reagisce, la vita preme, fino all’estremo lotta per la sopravvivenza. Soffre ma continua a rigenerarsi. Nella potatura e nel trapianto, la pianta addirittura si irrobustisce e diventa fruttifera.
Anche la liturgia è materia viva, perché è opera del popolo lavorato dalla Grazia.
La distrugge solo l’incuria, la sciatteria, l’incompetenza.

Con umanità e con fede
Gli spazi angusti del cimitero (o del cortile) non permettono di comporre uno spazio liturgico, come avviene nelle assemblee solite. Rimane però la parola e la sua forza performativa. Il lavoro dedicato al rito (che tanto ne richiede) può essere speso innanzitutto per una scelta attenta dei testi. Dovranno essere adatti alla storia del defunto, alla sensibilità della sua famiglia. Dovranno avere un particolare valore espressivo e distinguersi per la bellezza (nobile e semplice) della forma e del suono. La personalizzazione dei testi supplisce all’impossibilità dell’omelia e dei normali richiami alle vicende di vita del defunto.
L’area ristretta deve poi accogliere le persone a una distanza tale, tra loro e con il celebrante, che la mimica facciale e il volume della voce rischiano di essere in parte dispersi. Potrà rimediarvi la tonalità della voce, l’eloquio a volume alto e soprattutto il ritmo scandito con senso e attenzione. Le parole “piene” (prodotte dalla sinergia di senso e forma, logos e pathos) toccheranno il cuore. Proprio la povertà estrema dell’umano esalterà i significati e la verità di ciò che il rito celebra.
Il tempo permesso alla celebrazione può limitarsi a una manciata di minuti. Sappiamo però che la ritualità condensa il tempo. Sappiamo anche che i riti lavorano nell’inconscio. Non bisogna quindi perdere le possibilità di micro ritualità da ricavare con intelligenza. C’è innanzitutto la scena dell’accoglienza e del saluto: la piccola assemblea è composta in unità non dal canto ma dalla condivisione del dolore. Viene in aiuto il salmo 129 che raccoglie il turbamento e il vuoto della morte e lo apre, delicatamente ma insistentemente, alla speranza, al conforto, alla misericordia. Può seguire poi un breve procedere del gruppo, devotamente ricomposto e orante, verso il luogo della sepoltura. La recita di una decina del rosario può dare modo a tutti di partecipare, di sentirsi avvolti nel suono, oltre che coinvolti nella fede. Il coro delle voci compensa in parte la lontananza fisica e tiene uniti i famigliari.
Davanti alla tomba avviene poi la preghiera di raccomandazione e il commiato. Il celebrante è presso il feretro rivolto al gruppo. Gli istanti di silenzio, suggeriti dal rituale, possono essere particolarmente intensi, così che il segno dell’acqua riporti quel dolore alla speranza della Grazia battesimale. Non sempre sarà possibile, purtroppo, la proclamazione della Parola di Dio e la breve omelia. L’annuncio pasquale dovrà concentrarsi sulle parole e sui gesti del rito.
Nell’antifona finale, il celebrante si volta verso il defunto. Come fa la liturgia, lo tratta da persona presente: “In paradiso ti accompagnino gli angeli...” e gli parla dell’eterno, di ciò che vale (la risurrezione) e ciò che conta (la vita che non muore). Lì è evidente che non c’è altro.
Quella scena liturgica così ridotta all’essenziale è una cornice particolarmente eloquente in questi giorni, perché ognuno si identifichi, insieme al defunto, con “Lazzaro povero in terra”. Proprio a motivo di quella povertà, l’intensità del rito quasi sembra trasmettere un eco del “coro degli angeli”, cioè della consolazione dello Spirito di Cristo.
L’assemblea poi si chiude in silenzio, con le ultime lacrime e il tentativo, che subito si autolimita, di avvicinarsi alla bara e di stringersi ai familiari più prossimi.